La notte tra il 4 ed il 5 aprile del 2019, Khalifa Haftar lanciava la sua offensiva in Tripolitania per completare con un blitz militare il disegno che aveva in mente sin dal 2014, quando lanciò l’operazione Karama (Dignità) con la quale ambiva ad “eliminare i terroristi dalla Cirenaica” prima e dal “resto del paese” dopo. Il colpo di mano dell’aprile scorso doveva mettere velocemente i gruppi di Tripoli e la comunità internazionale dinanzi al fatto compiuto. Invece, un anno dopo, il conflitto continua e, anzi, è sempre più intenso. Molti attori esterni, in primis emiratini e turchi ma anche tanti altri, continuano a nutrire il conflitto con soldi, armi e mercenari; sudanesi, chadiani, egiziani, russi combattono per le forze di Haftar; siriani di varie estrazioni si combattono da ambo i lati. L’economia è completamente ferma: la Libia ha in sostanza quasi smesso completamente di esportare petrolio dopo il blocco lanciato da Haftar, crisi petrolifere che sono state ricorrenti in questi anni. Inoltre, i cittadini libici continuano a trovarsi sotto la minaccia perenne di rimanere senza acqua, come dimostrato in questi giorni nell’ovest, senza elettricità e con un sistema sanitario completamente al collasso e assolutamente incapace di gestire l’emergenza COVID-19, sia nell’ovest che nell’est.
Nei primi giorni del conflitto spiegai come l’attacco di Haftar modificasse in termini strutturali le dinamiche dell’oramai quasi decennale guerra civile, sottolineando come il suo attacco avrebbe portato ad una più marcata unita del fronte tripolitano, altrimenti notoriamente – e pesantemente – diviso, come aveva mostrato giusto qualche mese prima il conflitto a Tripoli. Nella logica del nuovo episodio della guerra civile libica, il Ministro degli Interni del GNA, Fathi Bashagha, è emerso come elemento centrale e “stella emergente” del firmamento politico libico, nonostante le enormi difficoltà’ che continua a dover gestire, in particolare con le milizie. L’attacco frontale che l’ex console generale libico ed uno degli ex leader della Brigata dei Rivoluzionari di Tripoli a Tunisi, Mohamed Shaeban “al-Mirdas”, gli ha fatto prima di cercare rifugio a Benghazi è spia di una seria di problemi più diffusi che Bashagha si è trovato ad affrontare nel rapporto con il variegato e difficile panorama delle milizie nell’ovest.
L’attuale fase della guerra civile libica ha fatto maturare una serie di ulteriori dinamiche: l’ultimo intervento militare americano, i bombardamenti di Africom di settembre scorso, e la morte di Al-Baghdadi, hanno dato un colpo decisivo alla presenza dello Stato Islamico in Libia, che in effetti dopo due anni di riorganizzazione e rafforzamento ha ora un profilo molto più basso nelle dinamiche del conflitto libico. Un’ulteriore dinamica che questa fase ha consolidato è la totale irrilevanza degli europei rispetto alle dinamiche libiche: la Conferenza di Berlino, nonostante l’hype diplomatico che aveva generato, non ha raggiunto nessuno degli obiettivi che si era posto e di come l’idea di una soluzione politica che si imponga su quella militare vada derubricata come buon proposito completamente slegato dalla realtà, come ho avuto modo di spiegare dettagliatamente per il German Marshall Fund e the National Interest con il collega Karim Mezran. In questa logica, l’Italia si e’ completamente eclissata: prima a causa di un’insensata “realpolitik dell’equidistanza” che l’ha condotta a non essere rilevante per nessuno dei due blocchi in conflitto, e poi a causa della crisi del Coronavirus che ha di fatto messo la politica estera italiana completamente in stand-by, facendo l’Italia un oggetto più che un soggetto geopolitico, come dimostrato dalle recenti dinamiche legate agli aiuti cinesi, russi e di altri paesi.
Emirati, Turchia, Russia, Egitto, continuano a menare le danze in Libia. Gli emiratini hanno oramai raggiunto un ruolo assolutamente centrale in Libia, parte del loro tentativo più ampio – che però continua a trovare resistenze – di dominare il blocco del Maghreb e del Sahel. La Russia anche è sempre più importante in Libia, e si sta muovendo in maniera marcata in tutto lo scenario nord-africano per rafforzare la propria presenza sfruttando tutti i vuoti lasciati da europei e americani. La Turchia anche è divenuta sempre più centrale, tenendo di fatto in vita il GNA e causando il risveglio degli europei: l’Europa continua a vedere la Turchia di Erdogan come un problema ben maggiore rispetto ad altri paesi, come dimostrato anche dalla levata di scudi europea per le azione della Turchia in Siria.
In questo contesto, quello in Libia è anche divenuto sempre di più un conflitto-appendice di altri conflitti – Mediterraneo Orientale, ad esempio, ma anche del conflitto israelo-palestinese vista la centralità che paesi del Golfo – nello specifico emiratini e sauditi – e chiaramente l’Egitto – attore centrale di qualsiasi tentativo di evitare una guerra con Israele – hanno affinché “l’accordo del secolo” si trasformi da piano a realtà. Questa dinamica spiega il crescente disinteresse americano rispetto alla Libia. In passato, un blocco petrolifero di quasi quattro mesi avrebbe provocato una reazione ferma, essendo quella una chiara linea rossa per per Washington.
L’accordo del secolo dovrebbe essere uno dei piatti forti della politica estera del secondo mandato Trump. Fino a qualche settimana fa, un secondo mandato trumpiano sembrava abbastanza scontato, date le difficoltà dei democratici e i robusti risultati economici del suo primo mandato. La crisi del COVID-19, però, può però rimettere tutto in gioco, come dimostrato dalle incertezze con le quali il Presidente americano ha affrontato – e continua ad affrontare – tale crisi. La crisi del COVID-19 non ha fermato le armi in Libia, anzi. Vi è quasi una sorta di nuova fase in cui tutti gli attori coinvolti ragionano con un approccio “ora o mai più”. Il che significa, sfortunatamente, che l’attuale fase della guerra civile libica è lontana dal finire quasi dieci anni dopo la rivoluzione del 17 Febbraio che era nata con ambizioni e speranze completamente diverse.