Con le notizie che arrivano in questi giorni dalla Libia, con le forze del GNA che oggi riprendono Tarhuna e ragionano se lanciarsi su Sirte e la mezzaluna petrolifera, dopo che ieri Fayez al-Sarraj aveva annunciato la liberazione di Tripoli da Ankara in una conferenza stampa congiunta con il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, appare evidente che la fase iniziata nell’aprile 2019 si stia esaurendo, segnando fine delle ambizioni neo-gheddafiane di conquista militare e controllo unificato e centralizzato della Libia da parte di Khalifa Haftar.
Ne scrivevo qualche settimana fa sul MENASource Blog dell’Atlantic Council con il collega Karim Mezran, spiegando come le ambizioni di Haftar si stessero sgretolando, con una serie di effetti significativi sulla coalizione, interna ed esterna, che lo supporta (o supportava?). Qui, invece, vorrei riproporvi alcuni passaggi che credo essere molto attuali di un pezzo ancora più vecchio, scritto alla fine dell’anno scorso, dal titolo “Libia: l’insostenibile leggerezza della Realpolitik dell’equidistanza“, pubblicato su Affari Internazionali.
In questo pezzo, spiegavo perché l’Italia si stava condannando ad essere irrilevante nel conflitto e nel definire le dinamiche in Libia. Analizzando cosa il ministro degli Esteri Luigi Di Maio disse a Repubblica dopo uno dei suoi viaggi in Libia, in cui il ministro diceva che la soluzione in Libia “non può [poteva] prescindere dal dialogo con tutte le parti. Non si tratta di equidistanza, ma di realpolitik” criticavo queste parole notando come l’Italia, per come si stava comportando in Libia, rischiava di “condannarsi all’irrilevanza eterna” anche perché era chiaro che “lo spazio per l’equidistanza travestita da realpolitik forse c’era prima, sebbene minima, ma nell’attuale conflitto iniziato il 4 aprile [2019] non esiste [esisteva] più.”
In questa logica, vi è anche un problema più ampio, ed è la crescente militarizzazione del Mediterraneo. In questo contesto, spiega come la crisi libica fosse indicativa di “trend più ampi molto significativi. Il Mediterraneo sta diventando sempre più l’arena di competizione tra vecchie e nuove potenze globali: Stati Uniti, Cina, Russia, Turchia, paesi del Golfo, e via discorrendo. Inoltre, le crisi libiche e siriane suggeriscono che – con gli americani sempre più inclini ad abdicare al loro ruolo di poliziotto globale, in particolare nel Mediterraneo – gli attori impegnati nel bacino vedono sempre di più lo strumento militare in termini clausewitziani, cioè di strumento per continuare la politica con altri mezzi… Per l’Italia, questa dinamica è estremamente preoccupante e l’intero spettro politico dovrebbe quantomeno iniziare un dibattito aperto, franco e pubblico su come vorrebbe affrontare questi sviluppi.”
Ci sono dei fattori strutturali che spiegano perché l’Italia può soffrire in un contesto del genere: “Uno dei motivi per cui l’Italia ha certamente scontato delle difficoltà oggettive nel muoversi in Libia negli ultimi mesi è legata ad alcune caratteristiche peculiari della propria politica estera storica rispetto all’uso della forza. Ad esempio, la centralità delle organizzazioni e del diritto internazionale per la politica estera italiana ha fatto si che l’Italia prendesse sul serio l’embargo Onu sulle armi in Libia, probabilmente uno dei pochi paesi nell’area a farlo. Al tempo stesso, la richiesta di aiuto militare del Gna è caduta nel vuoto perché l’Italia non vuole impegnarsi in contesti di questo tipo, soprattutto in uno scenario storicamente sensibile come la Libia. Ad ogni modo, il contesto mediterraneo sta cambiando, la militarizzazione dei conflitti politici diventa sempre più marcata, la competizione tra le grandi potenze pure, e la Libia ne è la prova più eclatante.… La crisi libica sta dimostrando che senza una capacità militare, non di tipo offensivo e aggressivo ma di supporto ad attori legittimi che eventualmente lo reclamino, e soprattutto la relativa volontà di utilizzarla qualora le condizioni lo richiedano, il rischio di irrilevanza in uno scenario sempre più militarizzato come quello del Mediterraneo venturo è enorme.“
In questa logica, aggiungevo che “per un paese come l’Italia, che del Mediterraneo abbraccia tutti i suoi sub-quadranti regionali, significa essere particolarmente esposto in uno scenario in cui sarà sempre più difficile supportare una qualsiasi voglia equidistanza.“
La totale esclusione italiana, e più generale, europea, dalla definizione di tali dinamiche dimostra come ci sia quello che potremmo definire uno smottamento geopolitico storico nel Mediterraneo, con i turchi che stanno tornando a giocare il ruolo che avevano perso con il collasso dell’Impero Ottomano, in un Mediterraneo sempre più multipolare, militarizzato e a geometrie variabili. Il rischio di una crescente marginalità geopolitica italiana non è mai stato così grande.